
Dedicato all’Associação Chapecoense de Futebol, ai caduti e ai compagni di squadra sopravvissuti.
Dedicado à Associação Chapecoense de Futebol, aos mortos e aos companheiros de equipe sobreviventes.
Oggi sono andato a salutare i miei compagni.
Sì, lo so, dovrei dire ex compagni, ma non ci riesco. Non si possono cancellare mille avventure passate insieme.
Il primo allenamento, sotto il sole, durante la preparazione estiva. L’attesa della convocazione per la partita d’esordio, del foglio appeso al muro con la formazione, del primo calcio d’inizio. I momenti di difficoltà, quando niente sembra girare per il verso giusto, tra sconfitte, infortuni, assenze. Poi, le vittorie, le urla nello spogliatoio, i festeggiamenti post-partita e i cori. Una, due, tre, fino a vincere un campionato, una coppa, e scatenare la gioia collettiva.
No, non posso definire ex coloro che mi hanno accompagnato in quest’avventura, per la quale ho dovuto fare rinunce su rinunce, a partire dal tradizionale e succulento pranzo con i parenti che ho scelto di evitare, accontentandomi di un misero piatto di pasta in bianco. Sì, l’ho scelto, ma l’ho fatto volentieri. E lo rifarei dieci, cento, mille volte ancora. E poi le bevute con gli amici, il far tardi la sera, la famiglia, quella vera. Già, perché oltre ai miei cari, esiste una seconda famiglia, composta da altre 20 persone. Non ci sono padri, madri o figli, ma solo fratelli.
E, come in ogni famiglia che si rispetti, non mancano mai i malumori, le lamentele, addirittura le sfuriate, che però, puntualmente, ogni volta finiscono per dissolversi nei momenti di allegria. D’altronde, la nostra casa ha sempre posto per tutti, ma solo undici persone per volta possono entrarvi, e qualcuno, giocoforza, deve rimanerne fuori.
È arrivato il momento di andare. Oggi lascio il borsone al suo posto, non mi serve. Niente bagnoschiuma-mutande-calzini-deodorante-phon-asciugamano-maglietta-giacca-pantaloncini-calzettoni, quasi una filastrocca che ormai, dopo tanti anni, ripeto a memoria per evitare di dimenticare qualcosa a casa. Una doccia veloce, quella che di solito facevo nello spogliatoio, chiacchierando del più e del meno con chi era al mio fianco. Questa volta, però, sono da solo, e ne approfitto per pensare al discorso di commiato che dovrò fare davanti a tutti gli altri. Non è da me utilizzare le solite parole che sembrano già scritte in un ipotetico manuale dell’arrivederci, voglio essere quanto più originale possibile. Quali parole sarà meglio utilizzare? Cosa devo ricordare e, al contrario, cosa devo tralasciare per non annoiare i presenti?
Mi vesto, questa volta non con indumenti da gioco, e in auto mi dirigo verso il punto di ritrovo. Nel tragitto, penso e ripenso al discorso preparato poco prima. Ok, ci sono, sono pronto.
Ecco, sono arrivato. Entro, per l’ultima volta, nel mio spogliatoio. È vuoto, tutti gli altri sono già fuori. Tutto sembra così disperatamente deserto, così silenzioso, così eterno. Sugli attaccapanni, ci sono le etichette con tutti i nomi dei miei compagni. Lì, in un angolo, c’è anche la mia, nello spazio corrispondente al posto in cui di solito mi cambio. Nessuna regola scritta impone che quel posto sia mio, ma di fatto lo è. Ed è stato così in tutte le esperienze che ho passato. Mi avvicino, e mi concedo un’ultima seduta, per guardare quello che è stato il mio mondo dalla solita prospettiva. E lì, nella mia solitudine, tutte le certezze cominciano a vacillare.
Rimango fermo per qualche minuto, alla ricerca della pace interiore. E ripenso a tutti i momenti, belli e brutti, vissuti dentro quello spazio angusto, sempre troppo pieno per stare tutti comodi, perché è lì che si concentrano gran parte delle emozioni passate.
Esco, con le gambe e il cuore che tremano, e mi dirigo verso il centro del campo. Schierati, di fronte a me, ci sono tutti. Sembra quasi che mi fissino, in rigoroso silenzio, e pendano dalle mie labbra, in attesa di quelle parole che non vogliono più uscire dalla bocca. Non so cosa dire.
Li osservo, uno ad uno, con lo sguardo di chi non attende altro di una parola, una sola, che possa farmi recedere dall’idea del saluto finale. Che, puntualmente, non arriva. Così, con l’ultimo frammento di coraggio che mi è rimasto, mi limito ad un “arrivederci, ragazzi. È stato bello essere uno di voi”.
Mi volto, con le spalle alla squadra e qualche lacrima che inizia a sgorgare sulle guance. No, è meglio non farmi vedere da loro in questo stato, mi prenderebbero per il culo a vita. Così, accelero il passo e mi dirigo verso l’uscita, verso la mia auto. E, solo lì, appoggio le mani sugli occhi e mi lascio andare, come un bambino. È stato veramente bello essere uno di voi.
Adesso, gioite anche per me.