

Piedi sopraffini, tecnica invidiabile e classe, dentro e fuori dal campo: questo è il denominatore comune del diez, secondo la comune concezione del calcio in Argentina.
E quando nasci a Rosario de Santa Fé, spesso, la classe ce l’hai cucita addosso, così come il destino da dieci: vengono da qui due giocatori come Lionel Messi e Ángel Di María, giusto per restare nel contemporaneo. Un altro fuoriclasse di questa zona, pur senza pallone, fu Ernesto Che Guevara. Ma qui rischieremmo di sconfinare in temi che ben poco hanno a che fare con il calcio (peraltro il Che, pur essendo tifoso del Rosario Central, ha sempre preferito al calcio un altro sport, il rugby).
Noi, però, facciamo un salto indietro all’anno 1932. Mentre in Europa i regimi totalitari iniziano a prendere piede, con l’avvento del Nazismo in Germania che segnerà il decennio successivo, ed in America, nella situazione di crisi post 1929, viene eletto Roosevelt, a Rosario nasce Miguel Angel Montuori, figlio di un sorrentino emigrato da queste parti e di un’aborigena locale. Dalla quale erediterà non solo parte dei tratti somatici, ma anche il colore olivastro della pelle.
Miguel è il classico ragazzo delle periferie, che passa intere giornate inseguendo un pallone in una situazione economica precaria. È il terreno in cui gli osservatori sguazzano per conto dei grandi club. E se il talento del giovane Montuori non sfugge né al Rosario Central né all’altra grande squadra cittadina, i Newell’s Old Boys, a godere è un terzo club, il Racing Avellaneda, che sfodera la carta De Mari, ex calciatore del club poi divenuto osservatore. Così, la classe di Miguel Angel si trasferisce lontano da casa.
Ad Avellaneda, però, il ragazzo non sfonda. Al Cilindro gli occhi sono tutti per Llamil Simes e Juan José Pizzuti, che trascinano la squadra a 3 scudetti di fila, tra il 1949 e il 1951, seguiti da un secondo e da un terzo posto. Montuori, così, sceglie di emigrare verso lidi in cui avere più spazio: l’Universidad Catolica è la destinazione designata, e qui il giocatore spopola: due stagioni, 26 presenze e 24 reti, e il secondo campionato vinto nella storia del club.
È il 1955 quando un altro osservatore segnala il suo nome ai club italiani: è un ex calciatore, con trascorsi poco più che dilettantistici, di stanza in Cile, in quanto al pallone ha preferito la strada della vocazione. È un prete, padre Volpi, e la sua segnalazione giunge alle orecchie di Giachetti, ds della Fiorentina. Dapprima dubbioso sulle sue qualità, anche a causa del livello di certo non eccelso del calcio cileno, si illumina nel vederlo sul campo, elegante come non mai nel dribbling. L’assegno di cinquantamila dollari arriva diretto nelle casse dell’Universidad, massimo introito di mercato dell’epoca per la squadra.
I tifosi dapprima storcono il muso, di fronte a colui che dovrebbe essere l’acquisto di punta in stagione: l’anno prima arrivò Julinho, nazionale brasiliano convocato al Mondiale svizzero nel 1954, seguito da Montuori, semisconosciuto argentino. Come già accaduto per Giachetti, si ricrederanno: titolare sin dalla prima di campionato, alla terza gli viene affidata la dieci, per la prima volta, nella trasferta contro la Juve. Da trequartista, alle spalle di Virgili e Julinho, illuminerà il gioco, andando a segno già dopo 4 minuti. Finirà 0-4. E sarà una stagione trionfale per i viola: primo scudetto, con 12 punti di vantaggio sul Milan (all’epoca dei tre punti, sarebbero stati 16), e 12 reti per Montuori, che già nel mese di Febbraio, esordirà con la Nazionale. Quella azzurra. Essendo, peraltro, il primo giocatore di colore a giocare con l’Italia.
Sono anni in cui l’Italia si avvale frequentemente di giocatori di origine italiana nati all’estero: accade con frequenza già dagli anni ’30. La doppia carriera tra club e nazionale, per Montuori, prosegue con soluzione di continuità: disputerà la Coppa di Campioni con la Fiorentina, trascinandola fino alla finale (persa con il Real di Di Stefano), e a quattro secondi posti di fila, mentre in Nazionale scenderà in campo altre nove volte, tra il 1956 e il 1958. Sarà in campo anche nella sciagurata partita di Belfast del 1958, in cui l’Italia, perdendo contro la locale Irlanda del Nord, fallirà clamorosamente la qualificazione al Mondiale svedese.
Il 28 Febbraio del 1959, all’Olimpico di Roma, l’Italia disputa, in orario pomeridiano, un’amichevole contro la Spagna, che può vantare in rosa stelle come il già citato Di Stefano, Kubala, Suarez e Gento. Nell’Italia, è assente il capitano designato Boniperti, e la commissione tecnica Ferrari/Biancone/Mocchetti assegna la fascia a Montuori. È un record storico: mai nessun oriundo era stato capitano della nazionale, e mai lo sarà fino a oggi. Anche Claudio Gentile, nato a Tripoli (Libia) e Giuseppe Rossi, di Teanock (USA), avranno l’onore della fascia, ma non sono considerati oriundi in quanto nati in terra straniera da genitori italiani.
La carriera di Montuori volgerà presto verso il termine. Un infortunio lo terrà lontano dai campi per quasi un anno, e nel 1961, rientrato in campo a Perugia, in amichevole, perderà i sensi dopo una pallonata sulla testa. Le conseguenze del colpo subito, sottovalutate, porteranno ad una diplopia (vista doppia) che lo costringerà ad un ritiro anticipato. Tenterà la carriera da allenatore, in Toscana, ma una serie di altre disavventure lo ridurrà in povertà: sarà necessario, per lui, tornare a casa, in Argentina.
Farà ritorno in Italia solo nel 1988, invitato ad una festa in onore dei grandi numeri dieci della Fiorentina. Venuti a conoscenza delle scarse condizioni economiche, i suoi ex compagni gli offriranno una casa, nel quartiere dell’Isolotto, arrendandola completamente, mentre il presidente della squadra del suo quartiere, Elio Boschi, gli offre un lavoro come osservatore.
Morirà nel 1998, nella città che lo adottò più di qualunque altra, in seguito ad un male incurabile che lo colpì. Di lui, ci rimangono un record finora imbattuto e una serie di ricordi legati alle esperienze passate: se i primi sono fatti per essere battuti, i secondi, invece, non muoiono. Mai.