

“Qualunque giocatore brasiliano, quando si libera delle sue inibizioni e si mette in stato di grazia, è qualcosa di unico in termini di fantasia, improvvisazione ed inventiva.
Solo una cosa lo ostacola e ne neutralizza la qualità: il complesso dei vira latas, i cani senza padrone. Nel ’50, eravamo superiori agli avversari e potevamo accontentarci del pareggio, e invece abbiamo perso nella maniera più abietta, perché Obdulio ci ha trattati a calci, come se fossimo dei vira latas”
Questa frase del giornalista brasiliano Nelson Rodrigues descrive meglio di ogni altra la clamorosa sconfitta del Brasile nel mondiale casalingo del 1950, per mano dell’Uruguay. Peraltro, perso non una classica finale secca, ma al termine di un gironcino a quattro con Svezia e Spagna, entrambe battute. Nel capitolo finale, la partita del 16 Luglio contro i vicini di casa, sarebbe bastato un pari per vincere.
E invece no, al Maracanà di Rio de Janeiro finisce 1-2, e la Coppa Rimet prende la strada di Montevideo.
Su quella partita, è già stato raccontato tutto. Il dramma di un’intera nazione, con un altissimo picco di suicidi nelle ore successive alla gara, mai superato, complice anche un’altra tragedia sportiva, fortunatamente limitatasi al campo, nel Mineirazo, la semifinale dell’ultimo mondiale persa per 7-1 contro la Germania. Ma raramente l’analisi del match parla di quelli che, nel bene e nel male, sono stati i protagonisti della gara, uno per parte.
Obdulio Varela e Moacir Barbosa.
Obdulio Jacinto Muinos Varela nasce a Montevideo, in una famiglia povera, nel 1917. Sin dagli otto anni è costretto a coniugare scuola (che lascerà presto) e lavoro, vendendo i giornali in giro per la città. E in più, nel tempo libero, c’è la passione per il pallone. Ma, diversamente da gran parte dei coetanei, non è particolarmente attratto dal buttare la sfera in rete, anzi. Gode letteralmente nel sradicarlo dai piedi degli avversari, per poi affidarlo a chi segnerà.
Scarso livello di istruzione, ma intelligenza smisurata, col piglio del leader, tanto che, data la sua carnagione olivastra, verrà denominato El Negro Jefe, il capo nero. A 15 anni, entra a far parte delle giovanili del Deportivo Juventud, squadra cittadina dilettantistica. La leggenda narra che, appena due mesi dopo, è già capitano della squadra under 18, composta quasi integralmente da ragazzi più grandi di lui. Nel 1938, ecco la grande occasione Wanderers, squadra di prima divisione, nella quale giocherà 5 stagioni, prima di approdare al Peñarol, dove chiuderà la carriera, quasi quarantenne, nel 1955.
Soffermiamoci sulla sua carriera in nazionale. Nel 1950, nel pieno della sua maturità calcistica, arriva l’occasione di disputare il primo mondiale in carriera. Nel gironcino finale, riesce anche a segnare la rete del 2-2 contro la Spagna, evitando ai suoi la sconfitta. Dopo la vittoria contro la Svezia (3-2), arriva l’ultima e decisiva gara finale, Brasile – Uruguay. Ma ne parleremo in seguito.
I padroni di casa sono talmente tanto sicuri di vincere che i politici locali si affollano per salutare la squadra, ed ognuno di loro vuole una foto. Addirittura, a ciascun giocatore viene recapitato, nel ritiro della Barra de Tijuca, un orologio con la scritta Campeões do mundo.
Il portiere, Moacir Barbosa, è ritenuto tra i migliori interpreti al mondo nel suo ruolo. Nato nel 1921, fino ai 20 anni giocava da ala sinistra. All’Ypiranga, a qualcuno venne in mente di provarlo tra i pali, con risultati mostruosi. Nel 1945, è già primo portiere del Vasco Da Gama, club più influente di Rio. Vince praticamente tutto in bianconero, e nel 1950 è lui il numero 1 titolare della Seleçao. Appena due gol subiti nella fase a gironi, salvando i suoi dalla clamorosa sconfitta contro la Svizzera (finirà 2-2) con almeno tre parate fenomenali. Nel gironcino finale, è ordinaria amministrazione: 7-1 alla Svezia e 6-1 alla Spagna, subendo gol solo a risultato già ampiamente deciso.
La partita del 16 Luglio 1950 probabilmente esula da tutto il resto del Mondiale. La capienza ufficiale è di 173.850 spettatori, ma sono almeno 200.000 i tifosi accalcati sugli spalti, pronti ad assistere alla consegna della coppa al capitano Augusto. Se non di più.
Il Brasile entra in campo per primo, sospinto da due ali di folla. L’Uruguay, invece, lo fa all’ultimo momento utile.
Varela ha le stigmati del leader, e prende in mano la squadra. Nel tunnel, ferma la squadra ad un passo dall’ingresso in campo, e pronuncia una frase storica.
“Los de afuera, son de palo”. Quelli là fuori, non esistono. Sollevare lo sguardo verso le tribune, gremite sopra ogni ragionevole ordine, sarebbe stato deleterio.
La personalità di Varela si esplica in tutta la sua esuberanza al momento del lancio della monetina da parte dell’inglese Reader. La prende al volo e la riconsegna al direttore di gara. “Lasci che siano loro a scegliere”, dice. “Tanto, oggi vinciamo noi”.
Nel primo tempo, Varela acchiappa tutto ciò che riesce, sulla mediana. Il gioco dell’Uruguay, infatti, crea una sorta di imbuto, che porta gli avversari a sbattere su un vero e proprio muro.
E Barbosa? A parte il palo di Miguez, è praticamente disimpegnato.
Nella ripresa, però, dopo appena due minuti, ecco l’1-0 verdeoro. Segna Friaça.
Varela sa che quel gol potrebbe essere l’inizio della fine, che se il Brasile si carica segna quando vuole. Ed ecco il lampo di genio: va da Reader, con il pallone in mano, cercando di convincerlo che il guardalinee abbia alzato la bandierina. Non potendo dialogare nella stessa lingua dell’arbitro, chiede addirittura un interprete. Reader non cambierà mai idea, e vorrei anche vedere, di fronte ad una folla del genere, monocolore…
Ma Varela ha ottenuto ciò che voleva: ha smorzato l’entusiasmo dei brasiliani.
Schiaffino pareggia al 66′. La superbia brasiliana di voler vincere a tutti i costi, si scontra con la realtà dei fatti: al 78′, su un pallone perso a centrocampo, parte il contropiede uruguagio. Ghiggia entra in area dalla fascia destra, osserva in mezzo, dove c’è Miguez, e lascia andare il pallone. Barbosa fa quel passo di troppo verso il centro, sbilanciandosi. E non la prende.
Ghiggia ha osservato il portiere, come aveva già fatto con Zarra, l’estremo spagnolo. E ha calciato sul primo palo. 2-1 Uruguay. E vittoria finale.
L’ultima idea geniale di Varela è in zona spogliatoi. Reader sta arbitrando l’ultima gara in carriera, e vorrebbe dalla Celeste il pallone della partita come ricordo. Varela gli presenta tre palloni, l’arbitro prende quello più rovinato, facendogli credere che è quello appena usato. Ovviamente, non lo è.
Barbosa, invece, verrà universalmente usato come capro espiatorio per la sconfitta. Il gol sul primo palo è una ferita troppo grande per i connazionali, che lo additeranno come colpevole.
“La massima pena detentiva mai data in Brasile è di 30 anni”, dichiarerà ad un giornalista, “ma la mia prigionia ne è durata cinquanta”. Per strada, chiunque lo indicherà come colui che fece piangere una Nazione intera, quel pomeriggio. E vederlo, era facile. Per strada, visse per anni. E vi morirà, in assoluta povertà.
Varela, ultimata la carriera da professionista, otterrà un posto di lavoro dalla Federazione uruguagia. Eppure, non basterà nemmeno a lui per fare una vita diversa da quella vissuta da giovane. Morirà nel 1996, tra le baracche della sua Montevideo.
Due giocatori, due destini diversi. Ma lo stesso finale.