Ngola Akwá, il sovrano nella Repubblica di Angola

Akwá, eroe Angola Mondiali 2006
Akwa, capitano dell’Angola che si qualificò ai Mondiali 2006

Un eroe nazionale, fuori dai rigidi schemi che implorano una popolarità mondiale per essere idoli in patria. Fabrice Alcebiades Maieco, noto come Akwá, nell’immaginario collettivo dell’Angola è colui che travolse ogni pronostico portando, nel 2006, la Nazionale al Mondiale. Un traguardo mai visto. Né prima, né dopo.

 

Dal campo al Parlamento, la storia di Akwá

In umbundu, una delle lingue native della regione angolana, Ngola era l’attributo regale che precedeva i nomi dei sovrani Ndongo. Quando i portoghesi colonizzarono il territorio, trovarono terreno fertile proprio in un’alleanza con la popolazione degli Ndongo. Proprio da qui nacque l’appellativo che, oggi, dà il nome all’intero paese.

E chi, meglio di colui che trascinò l’Angola ai Mondiali 2006 – e al derby con il Portogallo – può essere stato amato alla stregua di un sovrano illuminato, pur in una Repubblica presidenziale? Il caso vuole, peraltro, che lo stesso protagonista odierno abbia avuto un ruolo istituzionale, dopo la spedizione tedesca.

Non so immaginarlo, seduto in giacca e cravatta – ma con i corti rasta che gli arrivano fin sotto la nuca, e quella barba ispida a circondargli la bocca – sugli scranni del parlamento di Luanda. Anche perché non ho idea di che aspetto abbiano, gli scranni del parlamento di Luanda.
Ma lì, dal 2008 al 2012, è stato seduto Fabrice Alcebiades Maieco, che avevo visto solo in rare occasioni ma sempre in piedi, sempre in movimento. All’epoca, era noto come Akwá.

Però, posso immaginare qualche collega, anch’esso in giacca e cravatta ma magari sbarbato e dai capelli curati in maniera più formale, che gli si sia avvicinato – forse addirittura dai banchi di un partito rivale – per stringergli la mano. Esclamando «Che gol pazzesco, quello alla Nigeria!».

L’impresa dell’Angola nella strada verso il Mondiale 2006

Di anni non ne erano passati poi tanti, eppure doveva sembrargli già trascorsa una vita. Una nazionale praticamente senza storia e senza speranze, capitata in un girone con Gabon, Algeria e Nigeria. Dal quale, peraltro, dovevano uscire una squadra per la Coppa del Mondo 2006 e altre due per la Coppa d’Africa dello stesso anno. Credevano tutti fosse un’impresa impossibile, anche gli illusi sognavano al massimo qualche buon risultato velleitario e un confortante quarto posto.

Invece Akwá sognava in grande, e in quel cammino di qualificazione qualche strano allineamento delle stelle fece sì che i suoi piedi e quelli dei suoi compagni potessero giocare all’altezza di quei sogni. Aveva già segnato nella comoda vittoria sul Ciad, prima di quel missile che piegò le mani del portiere nigeriano, infilandosi sotto la traversa. Suo fu il gol del momentaneo vantaggio sul Gabon, partita poi conclusa sul 2-2, e quello del raddoppio contro l’Algeria. Poi, il gol che ricordano un po’ tutti gli appassionati, soprattutto fuori dall’Africa. Una frustata di testa, in un’area decisamente mal coperta da difensori del Rwanda. Il gol decisivo che portò l’Angola i Mondiali 2006 in Germania.

Dalla guerra civile al Qatar, puntando alla Germania

Perché in patria fosse così amato e considerato, Akwá, io all’epoca non lo capivo bene. Per me era solo un nome anonimo tra tanti, relegato in un campionato di infimo valore da ormai troppo tempo. Uscito dalle giovanili del Benfica, aveva girovagato qualche anno nelle squadre minori del campionato portoghese, prima di accettare il richiamo dei soldi qatarioti.

Ed è impossibile fargliene una colpa. Quando cresci in povertà, tra le strade di Benguela, in un paese in piena guerra civile – quella tra il governo marxista sostenuto da Cuba e dall’Unione Sovietica, contro i guerriglieri finanziati dagli Stati Uniti e dal Sudafrica – hai diritto ad arricchirti alla prima occasione che ti capita. Però, è fuori discussione che per lo spettatore medio europeo avesse più senso guardare a Mantorras, la punta del Benfica che pochi anni prima era considerato tra i migliori talenti in circolazione, piuttosto che al suo compagno di reparto Akwá.

Nessuno dei due lasciò il segno, in Germania, ma anche qua non gliene si può fare una colpa. L’Angola si difese bene: arrivò terzo nel girone con due punti conquistati, davanti all’Iran e dietro a Messico e Portogallo. Segnò un solo gol e ne subì soltanto due, mai più di uno a partita. Non male, per un paese che sportivamente è conosciuto solo per essere la superpotenza del basket africano (ed essere una superpotenza del basket africano non significa poi così tanto, in realtà).

Akwá, uno tra i tanti?

Quassù, in terra italica, la kermesse iridata del 2006 ha un significato piuttosto ingombrante, che toglie spazio a tutte le altre storie che concernono l’edizione tedesca. Specialmente quelle riguardanti una misconosciuta nazione africana che per la prima – e finora ultima volta – fece la sua comparsa nel calcio che conta, uscendone in punta in piedi. E Akwá, complice anche un Mondiale non indimenticabile, restò, per noi che osserviamo il calcio dall’emisfero nord, un nome tra i tanti.

Uno tra i tanti ragazzi di talento che non solo nascono nella parte sbagliata del mondo, ma addirittura nella parte sbagliata dell’Africa. E il cui talento è destinato a non sbocciare mai, a restare confinato in una bolla di incompiutezza e a riciclarsi in campionati di scarso livello finché il carattere, estroso come i propri piedi, non fa le bizze, rompe rapporti e incrina carriere. Che ne sarebbe stato di Eusebio, che era mozambicano ma di padre angolano, se gli osservatori del Benfica non lo avessero scovato per tempo e quindi trasportato in Europa?

 

 

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