Boban e Prosinecki, i due volti dell’indipendenza croata

Boban e Prosinecki Croazia
Boban e Prosinecki insieme durante un ritiro della nazionale della Croazia

Se andate dalle parti di Imotski, città croata situata in Dalmazia, regione che costituisce quel sottile lembo di terra che quasi interclude l’accesso al mare alla Bosnia, il cognome Boban è di gran lunga il più diffuso della zona. Lo è altrettanto il nome Zvonimir, segnale di Dio, che trae le proprie origini da uno storico re croato dell’undicesimo secolo, eroe nazionale.

Così, la nomenclatura Zvonimir Boban è quasi una prassi qui, in una terra a lungo possedimento italiano (o meglio, della Repubblica di Venezia). 

Nell’Ottobre del 1968, questo nome verrà dato ad un bambino destinato a diventare un artista del calcio, un poeta. Un genio ribelle, e tra poco scoprirete il perchè.

 

Appena tre mesi dopo, molti chilometri più a nord, a due passi dalla Foresta Nera, nella bassa Germania, mamma Emilja dà alla luce un bambino. Robert.
Emilja, come capirete, non è propriamente un nome teutonico. Già, perché insieme al marito Duro Prosinecki, da qualche anno, è partita dalla nazione d’origine, la Jugoslavia, per stabilirsi a Villingen. I due parlano la stessa lingua, ma provengono da due diversi regioni: lei è serba, lui croato. Ricordatevi queste informazioni.

 

Nel 1979, la famiglia Prosinecki torna in patria, stabilendosi a Zagabria. Robert, che con il pallone ci sa fare, innegabilmente, dopo i primi anni nelle giovanili dei Kickers di Stoccarda veste la maglia del club più prestigioso del capoluogo croato, la Dinamo.

Nello stesso anno, invece, Zvonimir incanta tutti con la maglia del Runovic, piccola squadra dalmata. E le sue prestazioni non sfuggono all’Hajduk Spalato, che se lo aggiudica, ma per una sola stagione, nel 1981.

Già, perchè il suo destino è in tinta blu, a Zagabria. Of course, alla Dinamo.

 

La coppia Boban-Prosinecki, sin dalle giovanili, è sotto gli occhi di tutti i calciofili jugoslavi. Prosinecki agisce da regista basso, da lavatrice: recupera i palloni sporchi e li rende giocabili, Boban invece, qualche metro più avanti, li smista con innata maestria, seppur non manca il vizietto del gol. È il 1985 quando Zvonimir fa il suo esordio in prima squadra, appena sedicenne, acquisendo quasi subito i gradi da titolare. Robert lo seguirà, la stagione successiva, peraltro segnando all’esordio contro i bosniaci dello Zeljeznicar. 

 

Mister Blazevic, però, ha opinioni differenti sui giocatori. Stravede per Boban, meno per Robert. A 17 anni, fuma in quantità industriale. Prima, dopo e durante le partite, nell’intervallo. Le qualità non mancano, ma non sfonderà, per l’allenatore. Bocciato.

 

Le storie dei due giocatori, così, si separano. Zvone continua a giocare con e per la Dinamo, divenendone capitano in tempo record, nel 1987, mentre Robert, scottato dall’esclusione dalla rosa dei croati, passa dall’altro lato della barricata, in Serbia.

Se non siete espertissimi di calcio e non avete competenze linguistiche in serbo, il nome Crvena Zvezda non vi dirà nulla, o quasi. La traduzione italiana, Stella Rossa, magari sarà di più facile comprensione.

Tra i due club scorre una rivalità non solo calcistica, ma (ovviamente) anche etnica. Le prime voci delle correnti indipendentistiche ed anticomuniste, sorte sulla spinta del movimento polacco chiamato Solidarność, non fanno altro che acuire i conflitti tra le parti. Gli scontri tra le tifoserie, dapprima sì presenti, ma sporadici, divengono una costante negli ultimi anni della Jugoslavia unita.

 

Coach Vasovic non crede ai suoi occhi, al primo allenamento di Prosinecki in Serbia. Un talento innato, arrivato a costo zero, è una manna dal cielo. Inserirlo da titolare è un gioco da ragazzi. Sarà il primo arrivato di quella generazione terribile costituita da lui, il montenegrino Savicevic, Mihajlovic e Jugovic, capace di vincere quattro degli ultimi 5 campionati jugoslavi e, soprattutto, la Champions nel 1991 nella finale di Bari contro il Marsiglia. Un rimpianto, per noi italiani, sarà quello di aver visto giocare con le maglie delle nostre squadre gli altri tre moschettieri, ma non lui, il quarto.

 

L’unico scudetto sfuggito alla Stella Rossa è quello del 1988/89, conquistato dal Vojvodina. Uno degli spartiacque della stagione fu la partita casalinga persa con la Dinamo per 0-2. Nell’occasione, gli scontri tra i tifosi iniziarono già durante la partita, con cori di stampo politico urlati dalle curve e culminati con l’affronto dei Bad Blue Boys, ultras croati, che in seguito alla seconda rete della loro squadra spararono numerosi petardi in segno di festeggiamento.

La partita della vendetta sarà la stagione successiva, il 13 Maggio 1990. I serbi, lanciati verso il titolo nazionale, si dirigono a Zagabria seguiti da 3000, tutt’altro che pacifici, tifosi, guidati da Željko Ražnatović, più comunemente conosciuto come la Tigre Arkan. Non proprio uno stinco di santo, più volte arrestato per rapine in giro per l’Europa, Italia inclusa, e più volte evaso dal carcere. Ražnatović ha unito i tifosi del Marakana di Belgrado, storico tempio della Stella Rossa, sotto un’unica bandiera, quella nazionalista a sostegno di Milosevic, e proprio nelle curve sta reclutando i futuri criminali di guerra.

 

La tensione è palpabile, a Zagabria, in vista del match. Un forte dispiegamento di polizia, a maggioranza serba ed a dire il vero molto tollerante nei confronti dei tifosi, riesce appena a limitare la furia degli ultras jugoslavi, che devastano letteralmente tutto ciò che incontrano nel percorso verso lo stadio. Arrivati all’interno, continuano la loro opera di demolizione, quasi indisturbati. La risposta dei tifosi della Dinamo, con in testa i Bad Blue Boys, non si fa attendere: invasione di campo, tentando di raggiungere il settore riservato agli ospiti. E, in questo caso, la risposta delle forze dell’ordine è veemente: manganellate e frequente uso di gas lacrimogeni.

I giocatori, già presenti sul campo per il riscaldamento, sono spiazzati. La Stella Rossa si rifugia in blocco negli spogliatoi, come alcuni giocatori di casa. Non tutti, però.

 

Zvonimir Boban è ancora sul campo. E quando vede un poliziotto bosniaco malmenare, a suon di manganellate, un tifoso della Dinamo, non ci pensa due volte. Sfugge a chi cerca di trattenerlo, prende la rincorsa e colpisce, con un calcio volante, l’agente Ahmetovic. Il gesto gli varrà l’ideologica medaglia di eroe nazionale, ma gli costerà il successivo mondiale italiano, a causa dei sei mesi di squalifica inflitti a suo carico.

 

L’evento sarà una miccia per la successiva guerra d’indipendenza croata, iniziata nel 1991, uno dei motivi che porterà all’esclusione della Jugoslavia dagli Europei del 1992, come raccontato ieri.

Già nell’autunno 1990, comunque, sorse quella che sarà la futura nazionale croata. L’amichevole giocata contro gli Stati Uniti, pur non godendo dei crismi dell’ufficialità, non vedrà scendere in campo Boban, che esordirà nel Dicembre dello stesso anno contro la Romania.

Prosinecki, invece, giocherà il Mondiale con la Jugoslavia, segnando peraltro una rete contro gli Emirati Arabi. Il suo esordio con la Croazia, invece, sarà datato 1994, in amichevole contro la Spagna. Con il gol siglato al Mondiale 1998 alla Giamaica, seguito da una seconda realizzazione contro l’Olanda, detiene un record unico nel suo genere: è il solo giocatore ad aver segnato ai Mondiali con la maglia di due diverse nazionali.

 

Zvonimir e Robert, nonostante la rivalità sul campo, sono rimasti ottimi amici, come ai tempi delle giovanili. Hanno solo vissuto la storia dei Balcani con un’unica prospettiva, ma da due diverse parti. Prosinecki, pur essendo per metà serbo e nonostante avesse militato, per diverse stagioni, alla Stella Rossa, si è sempre proclamato croato, e come già spiegato vestì la maglia a scacchi dopo quella della Jugoslavia unita. Boban, invece, ha difeso il suo sentimento nazionalista tramite il calcio. Non solo quello al pallone, ma anche quello rifilato ad Ahmetovic. Il calcio più forte della storia.

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